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TESTI CRITICI - PROF. STEFANO SANTUARI

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Conoscere interamente la natura?
Si, ma per potere,attraverso la pittura
rifarla internamente: ecco la vera ragione,
l’oggetto finale dell’attività dell’uomo.
In queste condizioni, si capisce che cosa possono significare l’arte e l’enigma che le è collegato.

Maurice Blanchot
I “Quaderni” di Leonardo da Vinci.

Quando Blanchot indicava che ”bastano pochi passi per uscire dalla nostra camera, pochi anni, per uscire dalla nostra vita“, gettava sul velluto del tavolo dei dadi una sfida al finito, inteso come cattivo infinito. La posta in gioco restava e resta l’artificio del mondo, l’improbabile e intimo segreto di una verità inaccessibile. L’assioma è semplice: se il mondo è “rappresentabile“ da una immagine (libro, poesia, quadro, scultura, ecc.) ogni immagine è il mondo. Ma da questa “innocente tautologia nascono temibili conseguenze“. Tutto scintilla in un rinvio illimitato, in un incubo composto di specchi che invocano eternamente e reciprocamente. Una labirintica marcia nell’inganno, nella falsificazione universale. Siamo in un perfetto ordine borgesiano della finzione. Il fatto è che concetti come citazione, copia, imitazione, trucco, falso, riferiti all’arte sono solo pedanti seccature.

L’opera del pittore Bruno Benfenati, ci conferma pienamente in queste nostre convinzioni.
Egli è un prezioso e giocoso catino in cui si rovesciano i colori della più tersa tradizione figurativa europea.
Ma egli gioca sapendo di giocare o è il mondo, l’astuzia della storia, che gioca con la sua pittura? La sua attrazione magnetica verso l’oggetto o, meglio, la sua costituzione che seduce la retina, non è nostalgia del concreto vivente ma dell’immagine che l’arte insegna a vedere in quel concreto. Non è il mondo nell’occhio di Benfenati che ci interessa ma la sfida della sua pittura a quel mondo. Quanto di questa battaglia alla fine ritorna a noi grondante di quelle cose che fanno l’umano e l’opera d’arte, insieme. Dinnanzi ai suoi quadri evitiamo affermazioni patetiche sulla verosimiglianza, sulla citazione da illustri copie. Sarebbe davvero sconfortante. Benfenati non intreccia colte mistificazioni, vuole solo accostarci a qualcosa di potente e rassicurante che ogni opera svela e cela, contemporaneamente.

E’ vero che ciò che codifica la sua pittura è il desiderio di una compiutezza formale ma è altrettanto vero che il desiderio si annida nel dettaglio e di questo dettaglio esige, di contro, le imprese di qualità di oggetto. Poiché - e Lacan lo ha detto una volta per tutte - il desiderio non cerca il soggetto, di lui se ne frega, cerca l’oggetto necessariamente parziale. E lo cerca all’insegna dell’esattezza che, insegna Calvino, è evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili. Insomma immagini icastiche.

Ecco allora in Benfenati una combinazione che fonda quasi una disciplina: formulare immagini ricche di necessità interne, “che posseggano l’energia sufficiente a catturare l’attenzione“ a imporsi in una abbondanza di significati che riconducano, però, sempre all’immagine. Nel suo recupero minuzioso delle tecniche dell’olio e della polvere di grafite (ottima aspirazione alle grisailles) e del carboncino, l’opera di Benfenati si colloca in questo clima disperato di fine millennio. La pittura di Bruno Benfenati, trasuda passato perché è assetata di futuro: questa speranza deve rallegrare le nostre pubbliche solitudini.

Stefano Santuari