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TESTI CRITICI - MARILENA FRATI

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"Bruno Benfenati e la natura che vive"

Chi sa dipingere non sarà mai solo così come chi sa suonare. La sua anima condurrà il suo pennello ed il suo spirito passerà attraverso il corpo con un fremito fino alle dita che correranno veloci sulla tela o sulla tastiera. La tela si riempirà di colori come note musicali che si armonizzeranno per riempirci gli occhi e trascinarci in un mondo diverso dal momento vissuto.
Mano sicura quella del Benfenati sia che si tratti del pennello che della grafite o del carboncino. Mano leggera, stemperata, delicata, che non aggredisce ma che rende il volume di una natura “morta” che invece vive in noi e per noi. Essa si mostra, si offre ai suoi come, attraverso lui, ai nostri occhi. Si tende per essere presa sollecitando il nostro gesto istintivo tanto pare vera nella sua tridimensionalità.
La materia in Benfenati non è oggetto di studio accademico, è attrice ed interprete.
Dare materialità ad una materia che appare “ inerme” perché affidata alla nostra quotidianità, all’abitudine dell’uso, è nobilitare l’oggetto caricandolo di significati.
Gli oggetti insignificanti al primo sguardo, racchiudono per Benfenati la nostra storia, accompagnano i nostri gesti, partecipano alla nostra vita; si caricano di simboli e divengono partecipi delle nostre ansie, del nostro vivere.

Quanti pittori hanno rappresentato “nature morte”? Dal grande Caravaggio quasi tutti i secentisti  Fiamminghi, Francesi, Italiani,  e qui è inutile enumerarli, si sono cimentati in pitture di natura morta con utensili, tavolacci, cacciagione, cesti di frutta rindondante; anche pittori a noi più vicini e a noi più familiari: Cézanne, Braque, Matisse, Morandi etc.etc…
I pittori più grandi hanno con facilità rappresentato tavole imbandite, magari di un desco appena consumato, ed oggetti d’uso comune colti nella loro semplicità e realtà.
Forse bisogna risalire al Caravaggio per cogliere le stesse emozioni e “ vederne” e “ sentirne” gli effetti che provocano, per concentrarci sul messaggio che l’artista vuole inviarci.

Ma in Benfenati tutto cambia: la “natura morta” diventa “viva”. Questo, accade con la sua “arte “.

Sull’uso del termine, Théophile Gautier  disse: ”che termine sgraziato”natura morta” per così tanta grazia”.
Il silenzio non è silenzio: è voce che vorrebbe parlare a noi uomini sordi e disattenti, non curanti del mondo e delle piccole usuali cose che sono a ricordarci abitudini e atti comuni alla nostra storia vissuta. Se potessimo fermarci un attimo, le cose ci direbbero: uomo fermati a pensare al tempo, all’attimo che fugge senza che tu possa goderne perché non lo valuti. Guarda con occhio diverso l’opera d’arte che non è “morta” ma ti invia un messaggio.
In Benfenati quei bianchi degli strofinacci così bianchi da uscire dalla cornice, diventano palpabili come appena avuti fra le mani e ci prendono e avvolgono con la loro luce. Il bianco è il colore non colore.
Nelle pieghe del tessuto, la caduta non è casuale: è un nascondere le pene, il peso delle colpe, i rimorsi dell’anima. E’ un rinchiudersi e ripiegarsi su se stessi per coprire i turbamenti, le ansie di un vivere moderno che ci trascina in un vortice irreversibile, è un tenere lontano da noi, al chiuso di una piega, il dolore e fare risplendere la luce del bianco che ci abbacina e che risalta ancor più nel contrasto del buio del fondale.

L’accostamento alla trasparenza, alla leggerezza, alla delicatezza dei merletti delle tovagliette è un’antitesi voluta, salvifica, che segna un percorso a volte di dolore nella tensione verso la serenità di uno sguardo ricercato e sperato. Quei rossi cremisi o fraise di uno scialle abbandonato su di uno scaffale al rientro da una serata un po’ fresca, sono il compiacimento e la vibrazione di un piacevole momento che dà gioia e serenità.

Pagine di libri aperti con copertine consumate dal lungo uso, ricordano notti insonni in compagnia di un buon amico che non ci tradisce. Gocce di rugiada su chicchi di uva colta invogliano chi guarda. Visi di vecchi pieni di saggezza e rassegnazione, che vorrebbero parlarci e raccontarci di quando erano giovani , forti e pieni di vita quando ancora la beltà e la giovinezza sfiorava i loro volti.  Pierre de Ronsard scriveva nel sonetto ad Hélène  »quand vous serez bien vieille, au soir à la chandelle…..direz…: Ronsard me célébrait, du temps que j’étais belle»
Il pensiero va lontano, va ai nostri vecchi forse anche un po’ dimenticati e che desidereremmo avere al nostro fianco per sentire ancora il loro sostegno.
Sembra, perché la mente vibra e lo spettatore si ferma in attesa, scrutando quei volti dipinti e forse attende da loro un segno.

Maestria casuale dell’artista? No! Profondità di pensiero ed elaborazione ponderata e sapiente di un vissuto che sgorga e si fa imperante, impellente e che conduce la mano fino a che l’animo non si placa, non è esausto e non vede l’opera che prende forma; fino a che l’uomo, artista, colto dal bisogno urgente di trasferire il suo sentire, non riempie la tela non di colori e forme ma di spiritualità.
Copie di oggetti? No! Trasposizione di un’ansia creativa, sofferta, vissuta, veduta nella mente, elaborata e rielaborata e finalmente esplosa. Questo è il vero artista.

Marilena Frati