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 "Geografia del silenzio"Ci sono immagini che fanno pensare come la pittura,  per Bruno Benfenati, sia una rapsodia di luoghi chimerici, di cose e situazioni  da reinterpretare assecondando il potere della luce e del colore. A volte,  soprattutto nei valori degli ultimi tempi, sembra che la geografia del  sentimento s’imbatta in solitarie emozioni, sicchè silenzio e solitudine  disegnano una sorta di atlante sospeso a  un’immaginifica attesa. Nature morte, oggetti che si stagliano su fondi  bruni, campiture dal sapore antico, libri, lembi di stoffa dove il gioco  chiaroscurale simboleggia un abbandono, tavole su cui trasmettere la sensazione  del visto e del sentito, il senso di un esistere trascorso fermato nelle pagine  del tempo che stiamo vivendo. 
 Le radici di ciò che è stato, i tramandi e gli  influssi, il passato che nella traslazione pittorica determina una nuova  presenza, qualcosa che - ricordava Pietro Bonfiglioli - “restituisce a quanto  ci ha lasciato, una autentica modernità”. Il linguaggio dell’arte e i moti  dell’ispirazione, non si esauriscono secondo calcoli matematici, la creatività  non ha schede prefissate per cui è immenso il mare delle opere che sopravvivono  ai loro autori e al loro tempo: esse hanno vita autonoma, qualcosa che le  affranca da clausole e vincoli originari proiettandole ben oltre i margini  storici in cui sono state originate.
 
 Ed è da tavole antiche che il fare di Bruno Benfenati trae ispirazione, quel declinare  che sembra indugiare tra citazionismo e anacronismo ma che intende invece  accarezzare le radici della storia per portare nelle proprie scritture il segno  dell’epoca che le ha generate.
 Benfenati dipinge da molti anni, adesso a tempo  pieno, una volta allo stato latente, nel senso di una passione che è riuscito a  manifestare totalmente solo dopo aver chiuso con gli impegni di un lavoro che  non aveva molta attinenza con la creatività, ma che gli permetteva  di affrontare i canonici meccanismi del  vivere quotidiano. Molto  del tempo libero lo ha dedicato allo studio, all’esercizio caparbio del segno e  del colore, al confronto con i libri e le opere dei musei. Sospinto da un moto  capace di infrangere le regole di un’accademia mai frequentata si è sempre messo  in discussione cercando di afferrare la sinopia di una pulsione estetica che, via via, infrante le regole del  precostituito, gli ha permesso un indice personale, in particolare dove la  naturalezza del segno sottende chiavi di lettura figurali con l’attestazione di  un passato che si fa moto di un presente percettivo. “Il disegno  racchiude lo stile e lo spirito fantastico di un artista”, diceva Dézallier  d’Argeville, e non v’è dubbio che l’idea si attaglia alla figura di Bruno  Benfenati, il quale, nei granuli della grafite, pare aver trovato la misura del  tempo e il senso delle cose in rapporto all’uomo. Disegni, seppie, bianco e  nero per miscelare la concretezza del vero ai giochi immateriali della mente.  Ammiccamenti metafisici e suggestioni poetiche si articolano in molti dei fogli  che compongono la storia più recente di questo autore, quasi una mutua e  silente relazione tra il senso percettivo e il pensiero che sospinge la mano a  traslare le emozioni. Oggetti in interni, figure, la stasi di una camera  ricondotta ad ostinata nalisi, penombre sezionate da riflessi luminosi, bianchi  sparati nell’architettura di una natura morta, il respiro delle ore trascritto  in modo onesto, quanto appassionato, un mondo personale dove la dannazione  della ricerca può tramutarsi in meraviglia del disvelamento di un sogno  chiamato pittura.  Franco Basile 
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